Fare coaching sia da coachee che da coach ha cambiato in meglio il mio modo di essere e di pensare.

A me piacciono le cose pratiche. Mi piace che ad un’azione corrisponda un risultato e che questo sia efficace e misurabile. Mi piace costruire case su fondamenta solide. Mi piace che i cambiamenti se sono necessari siano duraturi. Mi piace pensare che non sempre sia necessario cambiare, ma che a volte basta migliorare. Mi piace garantire solidità, coerenza e profondità a chi mi rapporto. Mi piace ragionare sul presente e sul futuro, prendendo il meglio dal passato e guardando al suo peggio con affetto, comprensione, ma con distacco. Mi piace approcciare ed essere approcciato dagli altri senza giudizio e senza proiezioni. Mi piace un modello che tenga conto di tutte le cose che riguardano l’esperienza del vivere e le relazioni e che cerchi di trasformare i limiti in comportamenti virtuosi per se , per gli altri e per il pianeta.

Mi piace fare coaching perché è coerente e funzionale a tutto ciò.

Sono sempre stato vagamente infastidito da chi mi proponeva delle soluzioni magiche ai problemi: teorie e pratiche di origine scientifica, psicologica, spirituale o religiosa che proponessero in qualche modo una soluzione univoca e radicale a problemi sedimentati e antichi, perché ho sempre avuto la sensazione che fossero troppo coerenti ed allineate con l’obiettivo più profondo del cervello ovvero adottare soluzioni semplici che comportassero il minor sforzo possibile.

Avevo l’esatta percezione del fatto che tutta la fiducia, la credenza e la fede che potevo mettere in campo non mi avrebbero permesso di arrivare a credere che qualcosa o qualcuno a me esterno potesse regalarmi una diversa prospettiva di me, del mondo, della vita, una visione che fosse talmente tanto verosimile da sembrarmi effettivamente mia.

Anche il mio furbissimo cervello, per quanto smaliziato fosse, attingendo solo dall’esterno non era in grado di ingannarsi a sufficienza per crederci veramente e dunque tendeva rimanere scettico e inerte; pigramente adagiato nelle sue incomprensioni esattamente come fosse un adolescente spiaggiato su un divano che calibra in maniera esatta come fare meno fatica possibile, completamente indifferente alle conseguenze della sua inazione.

Solo quando le conseguenze si sono fatte sentire realmente e come si dice: “i nodi sono venuti al pettine” ecco che lui ha reagito generando panico e angoscia.

Dunque per il mio cervello un problema poteva essere affrontato solo con la noncuranza o con il panico. Ottimo!

Il coaching , (la mia coach a dire il vero), mi ha aiutato veramente e non perché abbia sostituito terapia, religione o pratiche varie, ma perché mi ha aiutato a far emergere progressivamente i desideri, i valori , le credenze e gli schemi mentali più profondi permettendomi di togliere e riempire, di abbandonare ed abbracciare, di focalizzare l’attenzione su quello che volevo davvero raggiungere utilizzando le energie dove mi serviva ed evitando di sprecarle in giri inutili.

Da allora il rapporto tra me è il coaching è stato progressivo e non definitivo, ho capito che pur non essendo la panacea di tutti i mali mi ha aiutato e mi aiuta a capire ed a far capire quali sono realmente i problemi ed a mettere in campo energie, pensieri ed azioni per affrontarli e risolverli, o quantomeno per incominciare a farlo.

Solo attraverso pensieri non ancora pensati, emozioni non ancora vissute ed azioni non ancora compiute, ma che già esistono a livello potenziale, possiamo operare e radicare un reale cambio di prospettiva che ci permetta di ottenere chiaramente quello che noi desideriamo.

Il coaching lavora per questo ed è per questo che mi piace.